La governabilità è impossibile in una società antagonista, cioè divisa in classi, ed è inutile in una società dove la divisione in classi sia stata abolita.
Il concetto di governabilità fa riferimento da una parte alla stabilità politica, dall’altra all’efficacia decisionale. In un sistema basato sulla ripartizione dei poteri, in cui il potere giudiziario spetta alla magistratura, il potere esecutivo al governo e quello legislativo al parlamento o a comunque si chiamino le assemblee dei rappresentanti del corpo elettorale, l’efficacia decisionale dovrebbe spettare al potere legislativo, mentre il governo dovrebbe essere il garante della stabilità attraverso l’applicazione delle leggi stabilite dal parlamento.
Il problema della governabilità quindi, per come si pone nel dibattito politico e per come si è andato sviluppando nell’elaborazione teorica, già nel suo porsi svela il carattere ideologico, perché pone in capo al governo sia il compito della stabilità che quello dell’efficacia decisionale, che dovrebbe spettare al parlamento.
Questo approccio si è sviluppato a partire dalla teoria della scelta pubblica: il suo autore, James M. Buchanan, era convinto che il sistema democratico fosse incapace di controllare i burocrati e questo, lasciato a se stesso, avrebbe portato al fallimento dello Stato. Per questo riteneva necessario vincolare le assemblee elettive con rigidi limiti alla spesa pubblica, riduzione della pressione fiscale e all’emissione di moneta. Per questi studi Buchanan vinse il premio Nobel per l’economia nel 1966.
La teoria della scelta pubblica è stata fatta propria da tutti i governi: la religione del debito e del prodotto interno lordo, promossa dal Fondo Monetario Internazionale, si è affermata in ogni angolo del globo. Solo l’osservanza dei suoi precetti permette ai governi di accedere ai mercati finanziari, dove possono trovare i capitali necessari a far funzionare la macchina statale.
Governare, quindi, vuol dire costringere i propri cittadini a fare scelte contrarie ai propri interessi, contrarie agli interessi della maggioranza della popolazione e vantaggiose per una ristretta cerchia di privilegiati. Questo però espone l’apparato politico ad una contraddizione che può essere irrimediabile: il governo ha il compito di sostenere l’accumulazione capitalistica, da una parte contribuendo all’investimento iniziale (come ad esempio con il piano di ripresa e resilienza) o garantendo i profitti, attraverso la riduzione del costo del lavoro e il prolungamento del tempo lavorativo, dall’altra mantenere la pace sociale, ricercando quell’equilibrio tra le classi sociali che legittima il sistema democratico.
La crescente riduzione dei margini di profitto fa sì che le risorse disponibili per garantire la pace sociale siano sempre minori, mentre crescono le richieste sia di contributi per nuovi investimenti sia di interventi autoritari per ridurre il prezzo della forza lavoro al di sotto del suo valore e per prolungare il tempo di lavoro.
Più in generale possiamo dire che lo stato della società attuale è il prodotto di una rete complicatissima di lotte di ogni specie, invasioni, guerre, ribellioni, repressioni, concessioni strappate, associazioni di vinti unitisi per la difesa, e di vincitori unitisi per l’offesa. Il governo si erge a protezione dei vincitori, cioè dei detentori di tutta la ricchezza sociale, contro l’assalto dei diseredati. D’altra parte il modo di produzione capitalistico non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. L’innovazione e l’accelerazione continui del processo di produzione sono le molle che permettono al capitalismo di rinviare sempre l’esplodere delle sue contraddizioni. Costantemente alcuni individui cadono in condizioni inferiori a quelle a cui sono abituati, ed altri, per circostanze eccezionalmente favorevoli, riescono ad elevarsi a condizioni superiori a quelle in cui sono nati, interi rami della produzione vengono gettati in rovina, mentre altri si affermano improvvisamente. D’altra parte gli stessi vincitori, i capitalisti, se hanno bisogno del governo per garantire i propri affari, sono d’altra parte refrattari ad ogni forma di controllo che attenui gli effetti più drammatici del continuo rivolgimento della produzione.
La crisi di governabilità, quindi, ha profonde cause nella struttura sociale attuale.
Tutte le chiacchiere sull’efficacia decisionale del governo si ridurranno ad una museruola per l’opposizione parlamentare e a provvedimenti sempre più repressivi nei confronti di quella sociale; ma non basterà certo impedire alle manifestazioni di svolgersi nei centri dedicati alla movida e ai turisti per far scomparire le cause del disagio sociale. Anzi, affrontare il disagio sociale come un problema di ordine pubblico fa di ogni emergenza (la casa, il reddito, la salute) un’occasione di rivolta che si può tradurre in insurrezione.
La tempesta che si cercava di allontanare scoppierà tanto più violenta quanto più a lungo sarà stata repressa.
Lona Lenti